Cronaca di un delitto

Salutò l’Alfa di un marrone indefinito che l’aveva accompagnata fin sotto casa e che sarebbe rimasta vigile davanti al portone.
Fece capolino nell’ampio ingresso e dedicò un cenno d’intesa al portinaio ossequioso, poi salì le scale con agilità aprendo la porta dell’ultimo piano. Era una più che cinquantenne in forma e piacente e chiunque lo riconosceva. Entrò e girò tutte le serrature disponibili della blindatura. Finalmente tirò un sospiro di sollievo.
Si guardò in giro e depose la giacca sull’appendiabiti all’ingresso. Appoggiò il pacco ritirato dalla portineria sullo scrittoio e si tolse le scarpe. Si svestì rapidamente lasciando ogni tipo d’indumento sparso per tutto l’appartamento.
Sentiva la necessità impellente di rilassarsi, quindi andò ad aprire l’acqua dell’enorme vasca con idromassaggio che campeggiava nel bagno padronale, il più grande dei tre.
Nuda, quasi si tuffò. Stette a bagno talmente a lungo che imparò a memoria tutte le crepe e le imperfezioni del soffitto che avrebbe dovuto far sistemare. Dopo quel trattamento da regina, si asciugò e si rivestì.
Infine, attirata come esistesse una calamita della curiosità, guardò il PC sistemato sull’enorme scrittoio in ebano dello studio.
I fatti parlavano chiaro: la carriera di giornalista culminata nella quotidiana presenza televisiva le aveva dato fama e successo, ma ora richiedeva insistentemente il conto. Un conto salato.
Trent’anni di onorato servizio sempre dalla parte giusta, quella di chi le aveva spianato la strada e del padrone di turno. Il successo le aveva fatto perdere di vista, questa era la sua riflessione, la necessaria prudenza.
Molti suoi colleghi praticavano l’arte dell’equilibrismo, almeno di facciata, pur servendo allo stesso modo gli interessi dominanti.
Si sedette sulla poltrona e rimirò il computer spento. Alla fine si decise e premette il pulsante.
Lesse tutte le mail ed i messaggi che le fornivano quella solidarietà pelosa che tanto aveva successo. Lesse tutti gli articoli che la riguardavano e che, senza eccezioni, appoggiavano incondizionatamente “il suo lavoro integerrimo al servizio della comunità e della libertà di stampa”, guardò alcuni spezzoni di video che fornivano agli spettatori altre testimonianze della sua brillante carriera.
Puntò l’attenzione, una buona volta, alla lettura delle minacce che quell’organizzazione terroristica faceva circolare nei suoi riguardi.
L’ultima lettera, resa pubblica da un giornale nazionale, si rivolgeva direttamente a lei sostenendo testualmente: “Rappresenti la sintesi perfetta del giornalismo di questo paese: miserabili servi del sistema che hanno come unico scopo quello di disinformare. Una parte integrante del progetto di dominio che non agisce solo militarmente o attraverso l’azione penale, ma grazie ai gendarmi prezzolati come te che nascondono la verità dei fatti per presentare il punto di vista marcio degli sfruttatori”.
Pubblicamente, quel pomeriggio, aveva dichiarato che non si sarebbe fatta intimidire dagli sproloqui di una sigla sconosciuta, ma non era affatto tranquilla. Anzi, aveva una paura fottuta.
Si concentrò, inviò qualche messaggio al direttore della rete televisiva che ospitava il suo programma ed ai suoi collaboratori: avrebbero capito il motivo di una breve assenza giustificata da una fantomatica malattia.
Organizzò il fine settimana rinunciando a tutti gli eventi pubblici e pensando ad un programma alternativo.
All’ora di cena riuscì a spegnere l’aggeggio infernale che l’aveva tenuta incollata allo schermo per troppo tempo, si alzò e si stiracchiò pensando alla cena che, eccezionalmente, avrebbe cucinato dopo chissà quanto tempo. Un piccolo sorriso le increspò le labbra abbondanti.
Prima di trasferirsi in cucina, notò la scatola che aveva ritirato qualche ora prima e l’aprì.
L’appartamento esplose in un fragore assordante. Una decina di famiglie avrebbero passato la notte fuori casa.

Red Harvest

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