Agguato a Chinatown

Stringevo il bavero per evitare il vento glaciale di quel pomeriggio di ottobre. Avevo letto che proveniva dalla Siberia e non facevo alcuna fatica a crederlo: mi stava trasformando le orecchie in polpette congelate.
Camminavo veloce meditando sulla telefonata di quella mattina che mi aveva obbligato ad uscire. Il vecchio voleva incontrarmi ed il tono che aveva scelto per comunicarmelo puzzava di guai lontano un chilometro.
Le raffiche che spazzavano la strada continuarono a frustarmi fino all’arrivo come quei contadini che torturano le bestie da tiro.
Entrai nell’appartamento dei miei genitori con la mia chiave e varcai la soglia dell’ampia sala con una certa circospezione.
Una linea di tiro formata dalla parentela, più o meno prossima, formava il plotone d’esecuzione. Erano adagiati su comode sedie nello stile Zhejiang.
Mi esaminavano come avessero di fronte uno sconosciuto. Quelle numerose facce gravi e il fatto che indossassero abiti cinesi mi confermarono che l’affare di famiglia doveva avere una certa rilevanza.
Mio padre, Yi, con un cenno deciso della mano, mi invitò a sedere su uno scomodo sgabello posizionato proprio davanti al tavolo che era stato allungato per l’occasione. Era stesa una tovaglia di seta color verde bambù con delle decorazioni floreali fatte a mano e sopra riposavano le teiere e le raffinate tazzine senza manici.
“Non avrò combinato qualche guaio?” mi venne da pensare pur senza immaginare di cosa si potesse trattare.
Yi si guardo in giro e puntò gli avambracci. Unì le dita e ne fece un appoggio per il viso autorevole poi mi fissò dritto negli occhi.
I miei genitori vivevano a Milano da quasi quarant’anni, ma il capofamiglia iniziò ad esprimersi in un cinese con qualche sfumatura dell’inflessione dialettale del piccolo villaggio da cui provenivano, non lontano dalla cittadina di Yuhu.
“Si tratta di Jia Li. Una questione che solo la famiglia può cercare di risolvere senza troppi danni” esordì con lo sguardo che si era fatto inquieto.


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