Il virus

Era mezzogiorno, ma c’era poca umanità in giro. Poche auto, poche biciclette, pochi pedoni.
Solo lunghe file di persone tratteggiavano il marciapiede davanti ai negozi che distribuivano generi di prima necessità.
L’asfalto, che poco tempo prima accoglieva automobili e vibrava al passaggio della mandria metallica che strombazzava per farsi strada, accoglieva con fastidio il tipico scarrozzare delle camionette militari che presidiavano i quartieri della città sfrecciando sulle vie principali.
L’ordine, ripetuto in ogni modo, era quello di stare chiusi in casa a meno di non avere impegni inderogabili che avrebbero dovuto essere certificati.
Non avevo nessun attestato che motivasse la mia presenza in strada. Mi guardavo attorno con molta circospezione ed un poco di timore.
Vidi il mezzo militare e cercai di imboccare velocemente una viuzza laterale quando mi urlarono dall’altoparlante: – Altolà! Si faccia riconoscere!
Guardai verso la camionetta con un misto di smarrimento ed indignazione e cercai di prendere rapidamente il documento d’identità all’interno della giacca.
Il militare, alla vista del gesto affrettato, puntò l’arma e mi ficcò sei pallottole in corpo.
Scese dalla camionetta, si avvicinò e mi tastò col piede per controllare che fossi morto.
Lo fissai con le ultime forze che mi erano rimaste mentre il bastardo prendeva la mira per darmi il colpo di grazia.
Ero un ammiratore del presidente Allende, ma non avrei mai immaginato di morire come un cane rabbioso nella mia Santiago in quell’ottobre del 1973.
Prima di esalare l’ultimo respiro pensai che, come tutti i virus, prima o poi anche quello sarebbe stato debellato.

Red Harvest

2 Risposte a “Il virus”

  1. Complimenti per il raccontino: breve (così da mantener viva l’attenzione del lettore), attuale (stante l’emergenza-coronavirus in corso), militante (per via dell’allusione esplicita al Cile nazi-fascista, di ieri ma anche di oggi.)
    P.B.

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